INTRODUZIONE A NOOMACHÌA. LEZIONE 3. IL LOGOS DELLA CIVILTÀ INDOEUROPEA

 

Quella che segue è la terza di dieci lezioni tenute dal Professor Aleksandr Dugin a Belgrado (marzo 2018) nell’ambito della scuola di geopolitica serba e dedicate all’introduzione al progetto Noomachìa. Trascrizione e traduzione a cura di Donato Mancuso. Fonte: https://www.geopolitica.ru/en/studio/introduction-noomahia-lecture-3-logos-indo-european-civilization. Video: https://youtu.be/6UNyxjfEe44.

 

Andremo ora ad applicare i princìpi metodologici esposti nelle prime due lezioni a una realtà concreta. Abbiamo in precedenza discusso della teoria dei tre Logoi [1]e dei concetti di orizzonte  esistenziale e di istoriale [2]. Adesso, andremo ad applicare tutto ciò alla civiltà indoeuropea [3].

 

Anzitutto, ci andremo ad occupare dell’orizzonte esistenziale indoeuropeo. A tal proposito, occorre specificare che il concetto di orizzonte o spazio esistenziale può essere applicato su scale diverse, tanto alla piccole comunità quanto alle comunità di dimensioni medie o grandi, unite ad esempio dalle medesime origini linguistiche. Cosa si intende dunque per orizzonte esistenziale indoeuropeo? Si tratta del più vasto tipo di unione, coincidente con lo spazio in cui vivono i popoli che parlano le lingue indoeuropee. Alla famiglia delle lingue indoeuropee appartengono il latino e le lingue romanze, il greco, le lingue germaniche, le lingue celtiche, le lingue slave, il persiano, il sanscrito e le altre lingue pracrite, la lingua ittita e le altre lingue anatoliche, il frigio, la lingua illirica, le lingue baltiche, ecc. È interessante notare come anche la lingua romaní appartenga a questa comunità linguistica; i rom hanno origini incerte, ma anch’essi parlano una lingua indoeuropea. Lo stesso può dirsi per la lingua yiddish: anch’essa appartiene a questa famiglia, essendo una lingua essenzialmente germanica. Dunque, l’ecumene indoeuropea, l’orizzonte esistenziale indoeuropeo, è pressappoco coincidente con lo spazio abitato dai popoli che parlano queste lingue. Si tratta di uno spazio immenso, che copre un enorme numero di popolazioni.

 

Nella seconda lezione abbiamo visto che possiamo definire popoli e culture, oltre che per mezzo del loro orizzonte esistenziale, anche attraverso il loro istoriale. È dunque corretto parlare di storia indoeuropea, o meglio di istoriale indoeuropeo. Vedremo in seguito in cosa consiste questa generale sequenza istoriale di eventi e quali versioni essa ammette. Ora invece ci focalizzeremo sulle principali caratteristiche dell’orizzonte esistenziale indoeuropeo, per poter definire il Dasein indoeuropeo.

 

1. Turan e teoria kurganica

 

In primo luogo, dobbiamo prestare attenzione a un concetto molto importante, il concetto del Turan. Normalmente, il termine Turan viene utilizzato per indicare lo spazio in cui vive il popolo turco, ma in realtà tale termine è di origine prettamente iranica. Si tratta di un termine indoeuropeo appartenente all’antica religione zoroastriana e veniva adoperato nella tradizione iranica molto prima che si manifestassero le prime tribù turche nell’Asia centrale o nelle steppe eurasiatiche.

 

Qual è allora il suo significato? Conosciamo Firdūsī, poeta persiano del Medioevo, autore di un’epopea concernente l’istoriale iranico intitolata Shāh-NāmehShāh-Nāmehsi fonda sul conflitto tra Iran e Turan, un dualismo mutuato dall’Avesta, le antiche fonti preislamiche. L’Iran qui sta ad indicare le popolazioni sedentarie di discendenza iranica abitanti la regione della Media, a nord della Persia; il Turan era invece lo spazio in cui vivevano le popolazioni nomadi. Il significato originario di questa parola indoeuropea è “tribù” o “popolo” (come nel caso di “deutschen” o del lituano “tautos”). Turan indica quindi il popolo delle steppe; rappresenta lo spazio abitato dalle tribù indoeuropee nomadi.

 

Abbiamo dunque a che fare con un dualismo culturale e civilizzazionale molto interessante (su cui ritorneremo al termine di questa lezione): Iran e Turan rappresentano, nel loro significato originario, due tipologie o versioni di società indoeuropee, rispettivamente sedentaria e nomade. Questo dualismo è molto importante perché ha a che fare con l’origine stessa dei popoli indoeuropei. Tuttavia, quando iniziamo ad indagare su quale tipo di società, tra Iran e Turan, sia più antica, arriviamo alla conclusione che le tribù indoeuropee turaniche sono state le prime ad apparire, e che quindi le popolazioni iraniche all’origine della cultura sedentaria erano tribù ex nomadi che si erano trasformate in sedentarie. Questo significa che tanto le tribù iraniche quanto quelle turaniche provenivano dallo stesso spazio turanico. Tutti in effetti convengono sul fatto che l’origine della cultura indoeuropea sia nel Turan. Vi sono tuttavia molti dibattiti concernenti la sua esatta localizzazione: per alcuni il centro di tale cultura andrebbe ricercato molto più ad est, per altri a sud degli Urali, per altri ancora nell’area del Caspio o a nord del Mar Nero. Ma, in ogni caso, la patria originaria, la cosiddetta l’Urheimatdei popoli indoeuropei, va collocata da qualche parte nella vasta area che va dal Danubio alla Siberia meridionale.

 

L’individuazione della patria originaria costituisce un punto centrale nello studio della civiltà indoeuropea. Un secondo punto fondamentale da tener presente è che le prime culture indoeuropee erano nomadi, quindi strettamente legate alla pastorizia. Le prime tribù turaniche erano cioè costituite sostanzialmente da pastori nomadi. A tal proposito, consiglio la lettura delle opere di Marija Gimbutas, archeologa e linguista lituana, la quale ha illustrato brillantemente l’espansione indoeuropea. Secondo Marija Gimbutas, così come per numerosi scienziati e archeologhi russi, l’origine delle tribù indoeuropee va collocata da qualche parte a sud degli Urali, presso la città di Čeljabinsk, dove è stato recentemente scoperto un antichissimo insediamento turanico delle tribù indoeuropee nomadidal nome Arkaim.

 

È comunemente accettato che il popolo da cui origina la letteratura vedica indiana provenisse anch’esso da nord, da quello stesso spazio turanico da cui venivano gli antenati dei popoli iranici, ellenici, romani, latini, germanici, celti, slavi, baltici e ittiti (a cui appartenevano alcune delle tribù più antiche). Tutti questi popoli provenivano dallo stesso spazio turanico, dalla stessa patria originaria, dalla stessa Urheimat. E tutti loro erano latori della stessa cultura nomade pastorale. Secondo Marjia Gimbutas, queste tribù indoeuropee – diffusesi a più ondate migratorie, ciascuna delle quali portava con sé nuove forme linguistiche, nuove combinazioni di diversi dialetti all’origine delle moderne lingue indoeuropee – erano portatrici di quella che è stata denominata cultura Kurgan.

 

Nella nostra trattazione, la teoria kurganica acquisisce un ruolo di primo piano. Possiamo ricostruire, seguendo questa teoria, l’intera sequenza storica delle fasi di creazione delle società indoeuropee. Il primo punto dell’ipotesi kurganica è che vi era l’Urheimat, la patria ancestrale indoeuropea, collocata qualche parte a sud degli Urali. Il secondo punto è che i proto-indoeuropei erano popoli nomadi e pastorali; non si trattava dunque di coltivatori stanziali. Essi erano guerrieri, furono i primi nella storia a domesticare i cavalli, e si spostarono attraverso le steppe al fine di conquistare nuovi spazi: partendo dall’Urheimat giunsero in India, per poi colonizzare l’intera Eurasia arrivando fino alle isole britanniche. Pertanto, nell’ipotesi kurganica, gli antenati di ogni tribù e popolo indoeuropeo erano nomadi e pastori, vivevano nello spazio turanico parlando tutti la medesima lingua proto-indoeuropea da cui originano tutte le lingue indoeuropee, ed elaborarono una cultura che è all’origine di ogni società e civiltà indoeuropea: una cultura e civiltà proto-indoeuropea che possiamo identificare con il modello di vita nomade, con l’etica guerriera ed eroica, con il domesticamento dei cavalli e – molto importante! – con il cerchio solarecome suo simbolo principale.

 

L’etnologo tedesco Leo Frobenius ha descritto il ciclo storico di una cultura suddividendolo in tre stadi:

• il primo stadio è l’Ergriffenheit, la«commozione», la fascinazione, l’essere affascinati da qualcosa, l’essere posseduti dallo spirito, dalla bellezza, da un Dio, da un sentire interiore, ecc.;

• il secondo stadio è l’Ausdruck, l’«espressione» di questa possessione, il liberarsi da questa possessione cercando di esprimerla in immagini, in forme esteriori che possiedono e fascinano chi le esprime;

• il terzo stadio è l’Anwendung, l’«utilizzazione», l’applicazione del risultato di questa espressione all’ambito tecnico.

Possiamo vedere come nella fase indoeuropea turanica arcaica, tutti e tre questi stadi siano legati al concetto del cerchio. Prima di tutto vi è il sole, inteso come segno apollineo. Il primo stadio è la fascinazione nei confronti del sole, l’esser posseduti dal sole, l’adorazione del fuoco, della luce, del sole stesso come centro della propria fascinazione. Il secondo stadio è la creazione del suo simbolo, il simbolo del cerchio, che viene venerato dai suoi adoratori come un qualcosa che li possiede, come una sorta di loro concentrazione interiore. Il terzo stadio è l’applicazione tecnica di questo simbolo: ecco dunque comparire la ruota, e con essa il carro. È comunemente accettato che i primi aurighi sono stati indoeuropei. E con l’aiuto del carro, essi hanno conquistato ogni area dell’Eurasia, dall’India alle isole britanniche, passando per la Persia, la penisola ellenica e i Balcani. Tutti gli spazi europei vennero conquistati per mezzo del carro trainato da cavalli e basato sulla ruota, cioè sull’applicazione del cerchio solare all’ambito tecnico. Riassumendo: essi erano fascinati dal sole, adoravano il sole, hanno usato dal punto di vista tecnico il simbolo del sole al fine di creare il carro, e, per mezzo di esso, hanno espanso i raggi della loro cultura solare su tutto il continente eurasiatico a partire dall’Urheimat turanica. È pressappoco questa la sequenza istoriale indoeuropea dell’epoca preistorica. Si tratta di una sorta di destino: essere come il sole, dunque risplendere ed espandere la luce della propria cultura solare a partire dal punto iniziale, dalla patria originaria.

 

Questo è un punto molto importante al fine di comprendere cosa sia il Dasein indoeuropeo, il quale si riflette in tutte le lingue e le culture indoeuropee. Tutti i popoli indoeuropei discendono e sono predefiniti dal Dasein indoeuropeo solare della cultura turanica appartenente alle tribù nomadi e guerriere delle steppe. Dal cuore del Turan – che possiamo presumere essere da qualche parte a sud degli Urali, dove per inciso sono state ritrovate le prime ruote e le prime tracce di domesticazione dei cavalli – si è avuta quindi una sorta di espansione, che non è stata solo fisica (al fine di cercare nuove terre per nutrire i cavalli e così via) ma anche culturale: a partire dalla “patria sacra” della tradizione indoeuropea, dal polo solare situato nel cuore del Turan, ha avuto inizio un’espansione a più ondate dei raggi solari della cultura Kurgan in tutte le direzioni possibili. Così, i latori principali di questa cultura, le tribù nomadi indoeuropee, hanno colonizzato pressoché l’intero continente eurasiatico. La conclusione più importante che possiamo trarre è che il prototipo della cultura indoeuropea oggetto del nostro studio va rintracciata nelle tribù indoeuropee nomadi, come le attuali tribù afghane (Pashtun), ossete (dirette discendenti dei Sarmati) o irano-pakistane (Beluci) che hanno preservato e rinnovato questo tipo di cultura turanica e alcune delle quali si sono solo di recente sedentarizzate.

 

Questa era anche l’idea dell’ultimo Oswald Splengler. Vi è uno scritto postumo e incompiuto di Splengler, pubblicato recentemente, intitolato The Epic of Man,nel quale l’autore de Il tramonto dell’Occidenteipotizza l’esistenza di tre proto-civiltà: Atlantis (con la sua cultura megalitica), Kush (che copre l’area afroasiatica tra il Nord Africa e il Vicino oriente) e Turan (che copre l’area dall’Europa centrale alla Cina). Questa teoria si adatta perfettamente con l’ipotesi kurganica di Marjia Gimbutas e con gli studi linguistici sul proto-indoeuropeo, poiché l’origine comune delle lingue indoeuropee viene individuata nella medesima area turanica indicata da Spengler, la quale a sua volta coincide con l’Urheimatproto-indoeuropea da cui, secondo la teoria kurganica, provengono i progenitori dei popoli indoeuropei. Spengler, Gimbutas, archeologi, linguisti: tutti indicano la medesima area, il Turan.

 

2. La struttura del Logos indoeuropeo

 

Ora, cosa possiamo dire sulla struttura noologica della società turanica proto-indoeuropea? Qui, ci viene in aiuto un autore molto importante, Georges Dumézil, di cui consiglio caldamente la lettura. Dumézil è stato uno storico francese che ha dedicato la sua intera vita ad una brillante indagine sulla cultura indoeuropea, effettuando uno scrupoloso esame comparativo tra tutti i tipi di mitologie, religioni, leggende, canti, simbolismi, ecc., appartenenti alle tradizioni scritte e orali dei popoli indoeuropei. Tra i numerosi libri che ha scritto, raccomando la lettura di un testo molto importante intitolato L’Idéologie tripartie des Indo-Européens[4], che costituisce una sorta di sinossi dei suoi studi su questo tema.

 

Il principale risultato delle sue ricerche sulla struttura della società indoeuropea è la teoria trifunzionale. Dumézil arrivò alla conclusione che tutti i tipi di culture indoeuropee, siano esse antiche o moderne, si basavano su di una tripartizione funzionale. In sostanza, cioè, ogni società indoeuropea è costituita da tre caste:

• la prima casta, corrispondente alla funzione della sovranità religiosa, è quella dei re-sacerdoti; essi non erano considerati uomini ma esseri divini o sacri: re sacri o sacerdoti sacri. I re-sacerdoti possedevano una propria etica, una propria metafisica, uno speciale tipo di spirito fatto di luce, e il loro ruolo si basava sull’idea stessa del Sole; in altri termini, essi rappresentavano il «Sole sulla Terra», la luce, venendo considerati come figli di una divinità celeste. Questa casta può essere confrontata con la casta indiana dei Bramini;

• la seconda casta, corrispondente alla funzione della forza, della potenza bellica, è la casta dei guerrieri. Nel sistema iranico, i guerrieri erano aurighi, i quali costituivano il simbolo principale dell’espansione nello spazio turanico delle tribù indoeuropee. Nel sistema indiano, la casta dei guerrieri corrisponde a quella degli Kshatriya;

• infine abbiamo la terza casta, quella dei semplici pastorio allevatori di animali (bovini, cavalli, ecc.). 

 

Tutta la società rappresentava una sorta di esercito, un esercito che si muoveva nello spazio al fine di combattere e di morire. A differenza nostra, per loro la morte rappresentava una forma di “elevazione”. Essi consideravano l’anima come una scintilla celeste discesa sulla terra per fare ritorno in cielo. Di conseguenza, il traguardo massimo di un guerriero non era di sopravvivere ma di morire giovane in battaglia; allo stesso modo, il compito del sacerdote non era di vivere a lungo ma di vivere saggiamente, di divenire saggio, puro, di purificare sé e gli altri, mentre lo scopo del pastore era di essere federe e coraggioso, e di possedere molti bovini, ovini e cavalli.

 

Tale società si caratterizzava per una rigorosa gerarchia verticale, con i sacerdoti al vertice, i guerrieri nel mezzo e i pastori alla base. I semplici pastori si trovavano in basso poiché essi avevano a che fare con gli aspetti più materiali della vita, dunque erano considerati meno “puri” e meno perfetti, ma essi cercavano ugualmente di essere saggi come i re-sacerdoti e coraggiosi come i guerrieri. Il sistema valoriate, dunque, non si basava sui semplici pastori e sui loro obiettivi, ma al centro vi erano i sacerdoti e i guerrieri, i quali definivano i valori etici della terza casta.

 

In questa condizione di assoluta verticalità possiamo identificare la variante più pura del Logos di Apollo, la sua più espressiva, brillante e chiara manifestazione noologica. Tutti i viventi venivano considerati provenienti dalla luce solare, una luce che discende nei sacri re-sacerdoti, nei guerrieri per mezzo dei quali ha luogo l’espansione indoeuropea, e infine nei pastori; una luce celeste che discende per fare ritorno nuovamente in cielo. È interessante notare come la terra nelle steppe turaniche fosse dura, di una qualità che la rendeva inadatta alla semina e alla piantumazione; si trattava quindi di un tipo di spazio che predisponeva il ritorno in cielo di ciò che scendeva su di esso, dacché non vi era alcuna dimensione sotterranea. Le creature simbolicamente più demoniache, più negative, erano infatti il topo o il serpente che vivevano sotto la superficie delle steppe. Tale società era priva di radici, o meglio le vere radici erano in cielo. In una tradizione del genere, la società, la realtà umana, non rappresentavano qualcosa che cresce dalla terra ma piuttosto che sorge dal cielo, che espande le sue ramificazioni discendendo sulla terra – precisamente nella forma delle tribù indoeuropee – e che in seguito fa ritorno alle radici che l’hanno generata, il che significa fare ritorno in cielo, al dio, al fuoco; di qui la pratica della cremazione, affinché i morti possano fare ritorno all’origine solare. Si tratta di una concezione diametralmente opposta a quella a cui siamo avvezzi oggi. Questa tradizione indoeuropea prettamente nomade corrispondeva ad un Logos di tipo puramente apollineo.

 

Possiamo dire che essere indoeuropeosignifica essere apollineo. E ogni genere di società indoeuropea a noi noto – dai celti ai germani passando per i latini, gli illiri, i traci, gli elleni, i greci, gli ittiti, gli iranici, gli indiani, i sarmati, gli slavi, i baltici, ecc. – originariamente si fondava su tale Logos apollineo. Il nome «Apollo» è di derivazione greca, ma possiamo individuare facilmente lo stesso concetto nei Veda, nell’Avesta, nei miti di Odino, nelle leggente celtiche. Dumézil ha raccolto tutte queste mitologie al fine di compararle, e leggendo le sue opere, i lavori della scuola fondata da lui e portata avanti da Emile Benvaniste – una delle più importanti autorità linguistiche del ventesimo secolo, creatore di una sorta di dizionario dei termini economici indoeuropei che dimostra la fondatezza dell’ipotesi duméziliana –, ci appare tutto molto chiaro.

 

Il secondo punto della teoria di Dumézil su cui vorrei soffermarmi è ciò che egli chiama «ideologia indoeuropea» [5]. L’ideologia indoeuropea è una struttura immutabile, immarcescibile, che è rappresentata nel linguaggio, nella cultura, nei simboli, nella mentalità dei popoli indoeuropei che è esattamente la stessa dal tempo dell’Urheimat. In altri termini, vi sono princìpi costanti che influenzano la nostra concezione del cosmo, della società politica, della storia. Consideriamo la società per come noi la immaginiamo: in cima poniamo un’intellighenzia o classe di filosofi, seguono le forze armate, quindi il resto della popolazione. Si tratta di una visione verticale, gerarchica, con al vertice il presidente o leader come una sorta di antico re sacro, cui segue la classe amministrativa o militare corrispondente alla casta dei guerrieri, e infine il resto della popolazione rappresentante la terza casta. Tale visione è insita in noi in modo inconsapevole, ma se analizziamo ogni società indoeuropea – tanto moderna quanto antica, sia essa cristiana o pagana, orientale (indiana, turanica) o occidentale (celtica, germanica, slava, francese, latina, ecc.) – troveremo che essa è costruita precisamente attorno a questo asse trifunzionale. Secondo Dumézil, si tratta di un’ideologia invariata attraverso cui possiamo interpretare la storia di fondazione di qualsiasi Stato indoeuropeo: vi era sempre un mandatario della divinità, qualche re sacro proveniente dall’esterno (da qualche parte nel Turan) a fondare la città capitale, la quale costituiva una sorta di fortezza presidiata militarmente al fine di difenderne la postazione; questo rappresentava lo scenario principale, alla cui base vi era dunque una logica militare di conquista da parte di eroi sacri provenienti dal di fuori. Successivamente, si andava a costituire una società trifunzionale, al cui interno le relazioni tra sacerdoti e guerrieri da una parte e la massa della popolazione dall’altra a volte erano conflittuali; tuttavia negli svariati miti, cronache, storie, racconti religiosi, antichi canti di folklore e così via, troviamo descritte in molti modi diversi le stesse tre funzioni, le quali costituiscono il contenuto principale della tradizione indoeuropea, attraverso cui viene a stabilirsi la verticalità caratterizzante questo tipo di società.

 

3. Aniliginia

 

Veniamo ora alla relazione tra sessi. In un’altra occasione, per designare l’organizzazione sociale antecedente il patriarcato, esistita in Europa prima dell’espansione indoeuropea e caratterizzata dall’uguaglianza tra sessi, Gimbutas ha coniato il termine gilania. La gilanianon corrisponde alla dominazione della donna sull’uomo, delinea una sostanziale equivalenza ma nel contesto di una società matriarcale. In altri termini, la gilaniaè l’uguaglianza tra uomo e donna ma vista dal punto di vista femminile. Per studiare la relazione tra sessi nella società nomadica indoeuropea, io propongo un neologismo opposto: aniliginia, che indica parimenti una sostanziale equivalenza tra uomo e donna ma dal punto di vista maschile, turanico. Abbiamo dunque a che fare con due neologismi: gilania, dal greco antico γυνή (gynē, la donna), e aniliginia, dal greco ἀνδρός (andròs, l’uomo). Entrambi indicano l’uguaglianza tra sessi, ma Gimbutas mette al primo posto la donna, mentre nella società turanica patriarcale e patrilineare, pur rimanendo nell’ambito di una eguaglianza tra sessi, è il sesso maschile quello scelto come elemento strutturante. 

 

Nella società turanica gli uomini erano sempre in guerra, mentre le donne normalmente venivano lasciate negli accampamenti con la prole. Ma la vita non era pacifica, poiché ovunque vediamo lo stesso tipo di società dai tratti molto aggressivi ed espansivi. Di conseguenza, le donne erano obbligate a difendersi e a difendere la propria tribù, dunque esse dovevano essere ugualmente eroiche, guerriere. In caso contrario, sarebbero state oggetto di conquista. A loro modo, anch’esse erano guerriere e possedevano gli stessi valori degli uomini. Questo si rifletteva in molte tradizioni turaniche della società nomade, ad esempio nel matrimonio, prima del quale vi era una sorta di lotta tra l’uomo e la donna e, se l’uomo non riusciva a sopraffare la donna, il matrimonio non poteva aver luogo. Era una lotta in cui l’uomo doveva testimoniare la sua forza, la sua possanza, e nel caso in cui veniva sopraffatto, la donna poteva anche ucciderlo. Non stiamo parlando quindi di una società in cui vige la sottomissione della donna all’uomo, ma di un’amicizia militaresca tra uomo e donna che costituisce un tratto caratteristico dell’aniliginiae che si basa sul riconoscimento del valore normativo del patriarcato. Uomo e donna sono sullo stesso piano poiché entrambi si basano sulla dominazione di questo concetto solare della natura umana. Un caso estremo è il tipo di società delle amazzoni. Tale società non era affatto «femminista» come si potrebbe immaginare, poiché abbiamo a che fare con una proiezione di un tipo di valori e di cultura maschili – coraggio, forza, potenza, ecc. – su di una società femminile. Non si tratta dunque di una forma di matriarcato ma di una forma limite di patriarcato, dacché le amazzoni avevano accettato ogni genere di comportamento maschile.

 

Il tipo di società turanico è dunque caratterizzato dall’aniliginia, con donne poderose, molto forti e indipendenti, capaci di difendersi da possibili aggressioni. Questo è puro patriarcato.

 

Non vi erano molte divinità nelle mitologie indoeuropee, e quando erano presenti avevano anch’esse caratteristiche maschili. Consideriamo la divinità greca Atena. Essa era vergine, saggia come i sacerdoti e coraggiosa come i guerrieri. Non si tratta di un tipo di donna «materno» ma turanico. Atena riflette valori maschili: la sapienza, caratteristica più importante della prima casta, della prima funzione nella teoria duméziliana, e il coraggio, lo spirito eroico, principale attributo dei guerrieri appartenenti alla seconda casta. Non c’è spazio in questo immaginario per la maternità, per il destino puramente terreno della donna.

 

Tale aniliginiasta all’origine del carattere apollineo del Logos indoeuropeo.

 

4. L’ideologia indoeuropea in Platone

 

Qui possiamo richiamarci a Platone. Platone è un pensatore puramente indoeuropeo e, come è stato già detto nella prima lezione, egli è il massimo rappresentante del Logos di Apollo. Veniva peraltro considerato l’incarnazione dello stesso dio Apollo dai suoi seguaci. Esaminando tre dei suoi dialoghi, possiamo osservare la chiara raffigurazione dell’universo trifunzionale, del cosmo tripartito caratterizzante la cultura indoeuropea turanica.

 

Nel Timeo, possiamo vedere come la cosmologia platonica sia basata su tre specie, tre γένος (genos). In primo luogo vi sono gli esempi o i paradigmi (il Padre), seguono le immagini o le icone (il Figlio), e per finire abbiamo il non ben definito concetto della materia, la Chōra. Quest’ultima non corrisponde alla materia per come noi la intendiamo, alla «sostanza», ma allo spazio. Così, all’origine vi è il paradigma, in Padre; viene poi il Figlio come riflesso del Padre, quindi una sorta di spazio, che corrisponde non tanto alla figura della Madre quanto della Nutrice, la quale fornisce il luogo in cui avviene quest’atto di riflessione. Esistono tre livelli di realtà in Platone e l’ultimo, Chōra, è solamente spazio e nient’altro; non rappresenta la madre che partorisce, ma qualcosa che accoglie l’influenza proveniente dal vertice della gerarchia, dal paradigma, e la rimanda indietro. Questa è una versione della cosmologia prettamente indoeuropea; possiamo considerarla una tipologia cosmologica puramente apollinea, accolta come tale nel cristianesimo, nel medioevo, nella cultura romana, ecc. In altri termini, la cosmologia contenuta nel Timeo platonico è normativa per ogni tradizione indoeuropea. Possiamo individuarne ad esempio un modello similare nei Veda, oltre che nella tradizione iranica. Nella cosmologia platonica abbiamo sostanzialmente tre mondi: il più alto, quello di mezzo, e il terzo che costituisce la superficie terrestre da cui ha inizio il «ritorno»: ogni cosa proviene dal cielo, discende dal Padre celestiale, quindi ascendendo fa ritorno all’origine. Si tratta di un ciclo verticale, di cui il ritorno non costituisce tuttavia la fine, poiché quando siamo immanifesti sulla terra significa che esistiamo in una condizione superiore. Detto altrimenti, la terra costituisce il punto più basso della discesa dalla nostra posizione paradigmatica interiore, dal nostro stesso spirito (l’ātmannell’induismo): la nostra anima immortale discende al fine di ascendere, per fare ritorno all’origine, al vertice.

 

Analogamente a quanto detto per il Timeo, nella Repubblicadi Platone abbiamo lo Stato ideale suddiviso in tre classi: i filosofi, i guerrieri e i produttori. I filosofi, equivalenti ai sacerdoti nella teoria duméziliana o ad esempio ai bramini nella società induista tradizionale, sono chiamati a governare in virtù del fatto che essi sono votati alla contemplazione dei princìpi più alti, della scaturigine della luce celeste, dacché essi escono dalla caverna platonica per osservare l’unità, il sole e le stelle, pertanto il loro diritto a governare sugli altri deriva dal legame con il cielo. I guerrieri, nello Stato ideale, dovrebbero seguire i filosofi, mentre tutti gli altri, occupati in questioni materiali, dovrebbero obbedire ad entrambi. Anche nello Stato ideale di Platone troviamo dunque il concetto della trifunzionalità.

 

Lo stesso Platone, nel dialogo del Fedro, dà una descrizione tripartita dell’anima utilizzando il mito della «biga alata». L’anima, nella teoria platonica, si compone di tre elementi: vi è un cavallo nero rappresentante l’επιθυμία (epithymía), la concupiscenza, la tendenza verso gli aspetti più bassi e materiali del mondo corporeo (relazioni sessuali, nutrimento e così via); vi è poi un cavallo bianco che coincide con il θυμός (thumos), cioè il desiderio di gloria, di riconoscimento, un valore proprio dei guerrieri e collegato non ad aspetti materiali ma spirituali; abbiamo infine l’auriga che rappresenta il νοῦς (nous), cioè la ragione, la parte intellettiva centrale dell’anima, e il cui compito è quello di riuscire a dominare e guidare i due destrieri, il bianco diretto verso il mondo delle idee e il nero diretto verso il mondo sensibile, al fine di giungere all’iperuranio. È interessante notare come in questa metafora del Fedroancora una volta siano presenti l’auriga, il carro e i cavalli, cioè gli elementi di quella cultura proto-indoeuropea di cui abbiamo discusso inizialmente.

 

Così, in modo analogo alla tripartizione funzionale della società, anche l’anima è costituita da tre parti disposte verticalmente, dove l’auriga corrisponde al sacerdote (il bramino nella tradizione indiana), il cavallo bianco al glorioso guerriero (lo kshatriya) mentre l’inclinazione materiale del cavallo nero, rappresentante gli aspetti peggiori secondo Platone, corrisponde alla terza ed ultima casta.

 

Anima, sistema politico e cosmo: possiamo affermare, dopo aver esaminato il Fedro, la Repubblicae il Timeo, che tanto la psicologia quanto la politologia e la cosmologia platonica si basano sullo stesso schema tripartito indoeuropeo. Non è un caso che il filosofo britannico Whitehead abbia affermato che la filosofia europea è solo «una serie di note a margine di Platone». Platone è il filosofo par excellance. Critiche di Platone, sviluppi di Platone, dibattiti con Platone (come nel caso di Aristotele): tutto ruota attorno a lui.

 

Se consideriamo cosa è la struttura indoeuropea, possiamo a ragione ascriverla al platonismo. Questo si fonda sul concetto di eternità, pertanto non potrà mai risultare «superato», dacché l’eternità non è il passato ma coincide in egual misura con il passato, il presente e il futuro. Così, vi è stato un platonismo del passato, ma vi può e anzi vi dovrebbe essere anche un platonismo del presente, così come vi potrà essere un platonismo del futuro. Allo stesso modo, si può affermare che alla base del platonismo vi è il Dasein indoeuropeo e che esso non appartiene solo al passato ma che è anche il nostro Dasein presente; dunque, se siamoindoeuropeinon possiamo non dirci platonisti, e siamo indoeuropei, parliamo lingue indoeuropee, essendo platonisti. Questo punto è molto importante. In tale versione indoeuropea del Logos non vi è la concezione moderna del tempo: nel platonismo il tempo è verticale – il tempo è «l’immagine mobile dell’eternità», il suo riflesso, afferma Platone – per cui noi discendiamo, giungiamo qui sulla terra, al fine di ascendere, di fare ritorno all’origine. Noi non ci realizziamo sulla terra, al contrario qui siamo solo i «testimoni della gloria di Dio». Tutto ciò è presente nella nostra tradizione cristiana. Questo è puro platonismo, in ogni senso.

 

5. Conclusione

 

Per concludere, vorrei fare alcune considerazioni. Nella cultura indoeuropea, il Logos apollineo verticale non si presenta in un’unica forma. Il Logos di Apollo può manifestarsi in differenti modalità; possiamo ad esempio comparare due delle sue forme principali: la forma platonica e la forma vedica.

 

Nel platonismo, vi è un’assoluta dominazione della luce. Essa discende, raggiunge il punto più basso, cioè la terra, quindi placidamente e lietamente fa ritorno all’origine. Non vi è alcuna problematica, niente può opporsi ad essa. In altri termini, nulla può seriamente ingaggiare battaglia contro il cielo, Dio, il Sole. Vi sono alcune forze dal basso, dalla terra, che cercano di trattenerci qui impedendo il «ritorno», ma nella concezione platonica esse acquistano un’importanza secondaria, e possono essere facilmente vinte facendo ricorso alla tradizione ascetica, seguendo la disciplina, gli ordini, integrandosi nella società eroica, abbracciando la παιδεία (paidéia), il percorso pedagogico dell’antica Grecia che ci insegna come «ritornare». Il sistema educativo nella società platonica non consiste solo nell’obbedire formalmente ma nell’accettazione interiore dell’ordine e nel seguire la tradizione, diventando uomini e donne indoeuropei a tutti gli effetti, in modo da poter percorrere il percorso verticale del «ritorno». In questa concezione non c’è posto per il concetto del male. Come affermano i platonisti, il male corrisponde ad una condizione di diminuzione del bene; non esiste il male in sé. Se il bene è l’origine, il sole, il cielo, Dio, il male è la distanza da quest’ultimo e corrisponde ad una sorta di test per l’anima, un’esperienza che cerca di mettere ostacoli sulla nostra strada per il «ritorno» a noi stessi.

 

Questo punto viene sviluppato in modo particolare dalla metafisica vedica dell’advaitavedānta, in cui è presente il concetto per cui noi procediamo dal mondo della verità al mondo delle illusioni al fine di vincere l’illusione è fare ritorno a noi stessi, dal momento che l’essenza di noi stessi è divina. Secondo gli indiani, la nostra essenza è divina, solo che l’abbiamo dimenticato. Anche in questa concezione non vi è alcuna problematica: advaita vedāntaè una versione non dualistica del Logos apollineo, per la quale tutto ciò che non è divino è in realtà altrettanto divino, solo che non ne è ancora cosciente. Non c’è oscurità in tale versione. L’oscurità è semplicemente l’assenza della luce. L’oscurità assoluta pertanto non può esistere. Vi è solo una oscurità relativa, cioè una sorta di oscuramento della luce; un oscuramento che, come possiamo vedere osservando la natura, non è che la fase antecedente l’alba.

 

Riassumendo, sia quella platonica che vedica sono forme non dualistiche del Logos apollineo (ciò a volte chiamo platonismo advaita). Tuttavia, accanto ad esse, vi è un’altra formulazione del Logos di Apollo, rintracciabile nella tradizione iranica, che è problematica. Anche la tradizione iranica, come quella greca e indiana, affonda le sue radici nella cultura proto-indoeuropea, nel Turan, e costituisce una forma in cui si manifesta il Dasein indoeuropeo. Tuttavia, essa considera le forze oppositrici della luce in modo diverso. In quello che possiamo chiamare platonismo dvaita(duale), l’oscurità non è semplicemente assenza o oscuramento della luce, ma qualcosa di più; in altri termini, il male esiste di per sé. Ciò dà luogo ad una sorta di titanomachìa molto intensa, una lotta tra luce e tenebre. Se nella prospettiva platonica advaita(non duale) non c’è una vera e propria opposizione ma si tratta piuttosto di disvelare un’illusione, nella concezione platonica dvaita(duale) al contrario dobbiamo fronteggiare e sopraffare un vero e proprio «nemico» perché il male esiste di per sé, non è solo un’illusione, un oscuramento; abbiamo dunque a che fare con una vera e propria guerra, un conflitto molto serio poiché le forze dell’oscurità, o di ciò che si oppone al Logos apollineo, questa volta sono rilevanti e combattive. In questo approccio dualistico possiamo vedere qualcosa che si avvicina al Logos di Cibele. Al contrario, nel puro Logos di Apollo, nel caso del platonismo advaita, non si ha contezza del Logos di Cibele. Esso non viene considerato degno di attenzione, poiché vi è solo la superficie della terra su cui si discende al fine di ascendere e non si ha accesso alla dimensione sotterranea della «tana del topo (o del serpente)» situata al di sotto della superficie. La forma non dualistica rappresenta qualcosa di molto arcaico…

 

Per poter proseguire questa indagine sulDasein indoeuropeo e sull’orizzonte esistenziale indoeuropeo, dobbiamo pertanto studiare questa versione dualistica della struttura indoeuropea, e per farlo dobbiamo esaminare cosa accade quando le tribu turaniche nomadi diventano sedentarie. Non tutte le tribù indoeuropee durante la storia si sono sedentarizzate; ad esempio, popoli ed etnie come i Kalasha, iNuristan, i Pushtun, hanno continuato la tradizione nomadica fino al giorno d’oggi. Ma cosa accade quando, giungendo dinanzi ad una società sedentaria e assoggettandola, le tribù indoeuropee si sedentarizzano a loro volta? Questo sarà argomento della prossima lezione.

 

[1] Aleksandr Dugin, Introduzione a Noomachìa. Lezione 1. Noologia: la disciplina filosofica delle strutture dell’intelletto, Geopolitica.ru, 27 maggio 2019 https://www.geopolitica.ru/it/article/introduzione-noomachia-lezione-2-geosofia.

 

[2] Id, Introduzione a Noomachìa. Lezione 2. Geosofia, Geopolitica.ru, 19 luglio 2019 https://www.geopolitica.ru/it/article/introduzione-noomachia-lezione-2-geosofia.

 

[3] Cfr. Id., Noomahija: Logos Turana. Indoevropejskaja ideologija vertikali(Noomachìa: Il Logos di Turan. L’Ideologia Indoeuropea del Verticale), Academic Project, Mosca 2017.

 

[4] Georges Dumézil, L’Idéologie tripartie des Indo-Européens, inLatomus: Revue detudes latines, Coll. Latomus 31, Bruxelles 1958. Trad. italiana: L’ideologia tripartita degli europei, Il Cerchio, 1988.

 

[5] Cfr. Emanuele Castrucci, La teoria indoeuropea delle tre funzioni in Georges Dumézil, in Studi in onore di Remo Martini, Giuffrè, Milano 2008, pp. 545-562: «Il più grande contributo di Dumézil al campo di ricerca di cui ci occupiamo resta comunque la scoperta della tripartizione funzionale come carattere qualificante dell’ideologia indoeuropea. La scoperta, cioè, del fatto che non solo e non tanto i nostri progenitori praticavano una sorta di “divisione del lavoro” in tre ordini o ripartivano la società e il loro pantheon in tre classi, ma che oltre a ciò avevano definito e teorizzato questa divisione facendone un’ideologia, ovvero, secondo il senso già chiarito in cui Dumézil usa questo termine, una concezione globale dell’universo, dell’uomo e delle forze e tendenze che li creano e li sottendono, una riflessione sugli equilibri, le tensioni e i conflitti necessari al buon funzionamento del mondo così come della città, degli uomini così come degli dèi. L’ideologia “tripartita” appare infatti come il mito principale, la trama stessa della cultura indoeuropea.» [NdT] 

Transcription and translation by: Donato Mancuso