Idee e spunti sulla trappola liberalista tratti dall’intervento di Aleksandr Gel’evič Dugin a “Identitas”, Udine 2019 (parte prima)

Analisi a caldo

Come spesso mi capita quando mi reco ad ascoltare dei personaggi di un certo rilievo a una conferenza su temi di mio interesse, anche in questo caso, forse e probabilmente anche più di altre volte, vuoi per il tema stesso vuoi per la modalità di dialettica messa in campo dagli esperti, sono fioccati in me molti spunti di riflessione che ho tentato di riassemblare mentalmente man mano che, discorso dopo discorso, il filone della conferenza stava delineandosi. Identità, una parola e soprattutto un concetto che non esagererei a definire come il cardine sul quale poggiano e ruotano svariate mie iniziative; quelle interne al “Forum Julii Project” ad esempio, ma non solo. Persino le prime interviste amatoriali ai parenti, nel 2008, avevano a che fare con l’identità. Da appassionato di storia, di eventi e contesti del passato, di territorio, di etnie, di geografia, di cultura, di tradizioni, di storie più meno sconosciute, l’identità per me si può dire che sia tutto, tanto più se in essa convergono le più profonde ed essenziali spiegazioni di Francesco Catona e Raffaele Morelli (due psicoterapeuti, a mio avviso, brillanti e di fama nazionale) rispetto al senso dell’esistenza umana. Ma evitando di partire con parentesi quanto mai generiche e dispersive, cerco ora di concentrarmi e di arrivare al punto. Vorrei infatti proprio cominciare da ciò che più mi ha colpito internamente alla conferenza suddetta.

Non per una questione di preferenze, ma soltanto per il fatto che il suo intervento sia stato reso pubblico per primo tramite video su YouTube, mi muoverei dagli spunti in me seminati dall’organico e incisivo intervento di Alexandr Gel’evič Dugin, filosofo moscovita, nell’ambito del convegno “Identitas: uguali ma diversi”, tenutosi al Castello di Udine il 15 giugno 2019 sotto l’abile conduzione del suo organizzatore, il filosofo friulano Emanuele Franz. Egli quasi subito pone l’accento sulla contraddizione interna al sistema liberalistico, il quale, a dispetto dal nome, non si traduce in un insieme di idee che possano essere di giovamento per la “libertà” (poi capirete perché ho usato le virgolette) di tutti gli esseri umani, ma soltanto per coloro che aderiscano al liberalismo stesso. Già da questo primissimo concetto, si capisce come il liberalismo sia sostanzialmente una trappola: esso non vuole abbattere i muri delle ingiustizie per diffondere la semenza della libertà ovunque, bensì intende assoldare seguaci che stiano al sistema politico, ma soprattutto economico, del liberalismo, dunque creare un suo stesso muro che separi gli affiliati da coloro che, invece, preferiscono conservare la vera libertà, ossia quella dettata dai propri bisogni anche spirituali, da coloro cioè che, così facendo, si pongono automaticamente agli occhi dei liberalisti su un piano da disprezzare, sul livello dei nemici. In sostanza, l’unica forma di libertà garantita dal liberalismo sembra proprio essere quella di identificarsi come liberalisti (non a caso non parlo di liberali, essendo differenti i rispettivi significati, anche se spesso interscambiati), cioè di incasellarsi in un sistema che non accetta diversità di metodi e intenti. È il “totalitarismo”, come afferma Dugin, del liberalismo, e perciò esso è nemico, non amico della libertà. La libertà, infatti, è tale solo se condivisa orizzontalmente, cioè se nasce da un giusto modo di relazionarsi con gli altri, originandosi dalle esigenze dei singoli; esigenze che tuttavia non devono cozzare e invadere il campo di quelle altrui. La libertà fasulla del liberalismo non nasce e non si sviluppa nei rapporti ma viene imposta dall’altro tramite scelte politico-economiche, e gli elementi del sistema, ossia gli individui, non possono metterne in discussione i meccanismi, possono solo sottostare o ribellarsi, e quindi venire emarginati da coloro che invece hanno aderito.

Inoltre, più avanti nel discorso, Dugin tocca un altro concetto che mi ha scosso, ossia la coincidenza tra libertà e soggetto. Affinché qualcuno si possa definire libero, questo qualcuno deve poter esistere, però esistere non solo in quanto entità fisica, ma anche e soprattutto come persona e dunque come insieme di idee, di sentimenti, di bisogni, di modi di vivere. Se tutto ciò viene appiattito e omologato dal liberalismo, che non bada alla natura delle persone ma solo ai processi del mercato, per il quale le persone sono solo ingranaggi, allora viene meno la soggettività, cioè i caratteri dell’essenza di ciascuno, e di conseguenza, con l’annichilimento dell’essenza umana, la libertà non ha più senso. Essa, difatti, deve poter esprimere sé stessa soltanto in virtù della coesistenza e del rispetto dei caratteri dell’essenza che il sistema liberalistico vorrebbe appianare. E forse è proprio questa la dimostrazione filosofica che evidenzia come il liberalismo non sia garante di libertà, ben il contrario.

Poco dopo Dugin è ancora più marcato quando afferma che il liberalismo può effettivamente essere inteso nella considerazione della parola “libertà”, ma solo con l’accezione negativa del liberare l’uomo, la persona, dai caratteri su cui si fonda la sua essenza; è la libertà nello snaturamento. Questo è forse il concetto cardine di tutto il discorso. Il liberalismo, infatti, trova il proprio senso malevolo nel concedere la possibilità alla persona di diventare individuo asettico, cioè di svincolarsi da idee personali, tradizioni, legami con la patria d’origine, passioni che, agli occhi del sistema, sarebbero ree di trattenere la persona in uno stato di imprigionamento culturale. Solo sradicando questi capisaldi della persona spirituale e identitaria il liberalismo può far breccia nel cuore della persona; la quale smette però di essere tale, essendo ormai priva della propria identità ed assomigliando ad un granello di sabbia perso nel gigantesco e robotico meccanismo liberalistico. Operare questo snaturamento non è tuttavia facile; e dunque il sistema cosa fa? Adotta tutta una serie di stratagemmi, fatti veicolare abbondantemente attraverso i media e tramite noti e apprezzati costumi di società malate, come quella statunitense; mode e stili di vita importati dall’esterno e che finiscono per sedurre la persona, fino a quel momento ancora libera e inserita nel suo definito e caratterizzato contesto identitario. Appena la persona comincia a cedere alle lusinghe del nuovo sistema, che mai smette di assillarla di promesse e di prospettive di benessere e di ricchezza, è come un effetto domino: ella finirà per avvicinarsi sempre di più al nuovo mondo, che in effetti sembra proporle novità assolute e meritevoli di essere colte al volo, a patto però che la stessa persona abbandoni i suoi antichi valori, recida le sue radici con la propria essenza profonda e con l’identità del territorio in cui è cresciuta. Questi caratteri identitari, che il nuovo sistema tende inesorabilmente ad annichilire sotto un enorme mantello grigio uniformante, sono, parimenti ai caratteri intrinseci dell’anima di ciascuno, la vera unicità della persona. Una persona è tale solo se rispetta la sua essenza interiore della psiche, che è unica e inalienabile da sé stessa, ma anche la parte del suo essere che deriva dal sano rapporto col proprio territorio. È il gigantesco inganno del liberalismo: ti vende un sogno fittizio, e la moneta diventa il principale parametro su cui si possa misurare la tua esistenza. Vuole scambiare la libertà di serie A per una di serie Z, anzi, per una non-libertà mascherata da libertà.

Dugin prosegue mettendo in guardia sul fatto che la prosecuzione dell’estremismo liberalista punti verso uno snaturamento dei più basilari caratteri fondanti di ciascuno, dunque non solo del rapporto con la comunità a cui si appartiene e col territorio, ma anche di aspetti intrinseci e definiti dalle leggi naturali, come il sesso di appartenenza. Egli infatti ricorda come si stia già provando, attraverso le politiche di genere, a proporre all’uomo la possibilità di scegliere il proprio sesso, contro ciò che la natura ha già predisposto, se non addirittura la propria specie; forse si arriverà addirittura alla libertà di scegliere se essere umani o meno. Insomma, una libertà che non solo rema contro il rispetto per l’identità acquisita dal particolare contesto geo-sociale in cui si vive, ma anche contro ciò che, per natura, non potrebbe essere modificabile con i soli mezzi della natura stessa. Se essa non ci fornisce di suo i mezzi per mutare identità su certi aspetti, come mai ora l’uomo vorrebbe arrogarsi un diritto che non ha mai avuto in tutta la storia, men che meno hanno avuto gli altri esseri viventi in miliardi di anni di storia della vita sulla Terra? In base a quale effettiva esigenza di sana realizzazione personale o di miglioramento del benessere fisico? Certo, ci sono animali che possono cambiare sesso, gli ermafroditi sequenziali, ma essi sono progettati per compiere quel processo di trasformazione, l’uomo no. E forse la più assurda e ignobile violenza che l’uomo sta progettando contro Madre Natura è proprio questa: voler avere l’ultima parola persino su ciò che non dovrebbe essere modificato perché non contemplato come mutabile nel nostro DNA. Si tratta di una gravissima mancanza di rispetto non tanto verso l’identità biologica in sé, quanto verso la nostra capacità di trovare un’armonia tra essa e l’identità di genere. Piuttosto che sfruttare fino in fondo le già disponibili e auto-terapeutiche risorse psichiche, preferiamo affidarci pigramente agli ultimi progressi della medicina, la quale dovrebbe rappresentare in questi casi l’extrema ratio (come in psicoterapia), non la norma; al contrario invece di quei casi in cui la discesa in campo delle conoscenze mediche è l’effettiva unica soluzione di comprovata efficacia per il miglioramento della salute umana, come nel caso della cura di malattie genetiche. Dopo aver attaccato ferocemente l’identità culturale, era quasi scontato che il liberalismo avrebbe fatto lo stesso anche nei confronti dell’identità sessuale biologica: l’ultima follia dell’anti-libertà del liberalismo. È una nuova forma di schiavismo auto-imposto, perché queste possibilità contro natura rendono dipendenti dall’arroganza di poter scegliere qualsiasi cosa che riguardi il nostro essere, nonché dall’incapacità di riconoscere i tratti distintivi che dovremmo sfoggiare come bandiera, e non abbattere come confini che sbarrano la strada alla presunta libertà assoluta. Si può dunque dire che il liberalismo, in questo suo disegno distruttore di ogni base bio-culturale, dimostri una pulsione marcatamente “identitofoba”, in quanto è proprio l’identità ad essere vista come una gabbia da smantellare al più presto e senza alcuna remora.

Quindi il filosofo pone sul tavolo anche la questione del populismo, da intendere, secondo lui, non come un insieme di istinti di pancia che fuoriescono dal lato più violento dei popoli, ma come uno spontaneo risveglio della coscienza collettiva, la quale si accorge che è in atto un attacco massiccio contro propri valori identitari. Egli, però, ricorda anche come il populismo possa sfociare nel nazionalismo aggressivo qualora non venisse, dopo un primo momento di automatico ribollire di idee e di propositi più o meno estremi, aiutato a convogliarsi nella dimensione filosofica e spirituale dello stesso, in cui può maturare e portare frutto. Il populismo lo intendo infatti come una creatura appena nata che deve imparare, anche con l’aiuto esterno, a reggersi in piedi e a non correre pericoli. Così come un cerbiatto appena partorito non è in grado di poggiare stabilmente sulle zampe e finisce per ribaltarsi più volte scalciando concitatamente, allo stesso modo il populismo nella sua forma primordiale non sa bene come muoversi, fa tentativi, anche maldestri, inciampa, si rialza e ricade nuovamente. Poi però il cerbiatto prende confidenza con la realtà in cui si trova, impara a conoscere veramente il mondo, fa esperienza, e inoltre è aiutato dalla madre. Ecco, il populismo, proprio come il cerbiatto, dovrebbe in parte fissarsi autonomamente e gradualmente su di un livello più stabile, man mano che matura la percezione delle sue potenzialità, delle sue direttive ideali e del rapporto con gli altri elementi; e dovrebbe in buona parte essere sostenuto, guidato, consigliato da una forza esterna, che può essere quella di una corrente filosofica che sappia coglierne i principi pur nel loro ancor grezzo e confuso manifestarsi.

Se però il cerbiatto è accecato dalla paura di non riuscire a stare in piedi e non è aiutato e incoraggiato dalla madre, allora potrebbe finire per farsi davvero molto male. La permanenza di uno stato di incontrollato furore e paura è il pretesto usato dal sistema liberalista per dichiarare guerra a ogni nascente populismo, additato come un pericolo per sé stesso e per gli altri, in quanto sospinto nella sua azione disordinata e irrazionale da pulsioni animalesche e in conflitto con la civile convivenza. Ma il liberalismo sa fin troppo bene qual è la vera natura del populismo, e puntualmente sfrutta proprio la sua perdita di controllo per ribadire la necessità di far fronte comune per contrastare il dilagare della pestilenza populista. Il problema è che i populismi finiscono quasi sempre in questa spirale di caos anche perché viene ostacolata la possibilità di farsi rappresentare da intellettuali interessati alla causa, e che potrebbero adeguatamente interagire con le altre forze in campo, politiche e non. Spesso non si permette loro nemmeno di comunicare i contenuti internamente a un sereno clima di confronto, oppure, se lo si fa, vengono prima o poi sistematicamente fatti cadere in trappole dialettiche (spesso neanche con risultati particolarmente esaltanti per gli “aggressori”) studiate a tavolino, in cui ha luogo un martellante assedio di accuse e invettive perorato dai rappresentanti del liberalismo, quasi sempre in superiorità numerica, oltre che aiutati dalle stesse modalità di conduzione del confronto. In televisione, se ci pensiamo, tutto ciò è diventato una costante.

Così facendo, non solo si blocca sul nascere il processo di normalizzazione del populismo, ma inevitabilmente lo si incrudisce, in quanto, e questo è dimostrato da innumerevoli circostanze della storia, se si tira troppo il guinzaglio, se si tappa la bocca per troppo tempo, se si chiude il leone in gabbia, questo non solo non si tranquillizza ma conosce un’escalation di aggressività e frustrazione. La repressione politico-culturale e la mancanza di un confronto, ma soprattutto di un dialogo equo e rispettoso di tutti i protagonisti, portano allo svilupparsi di dinamiche che, questa volta sì, possono davvero sfociare in una forma molto aggressiva ed estrema di populismo; un populismo che, in effetti, qui perde di legittimità, perché si ubriaca di odio, xenofobia, violenza e vendetta. Ma questo non dovrebbe essere il processo riservato all’evolversi del populismo; questo è esattamente ciò che vuole il liberalismo, perché solo in questo modo, solo potendo mostrare al mondo i danni reali e potenziali del populismo aggressivo, tramutato ormai in nazionalismo, esso può riconfermarsi come il sistema paladino della libertà contro gli abusi e la destabilizzazione socio-politica portati dalle crescenti convulsioni nazionalistiche. Il populismo embrionale, per farsi veramente ascoltare e per toccare i cuori e le menti, dovrebbe imparare ad evitare questa trappola, ad aggirarla letteralmente, ma purtroppo, forse proprio per la sua precocità, quasi sempre finisce per cadere nel tranello, forse inevitabile, tesogli dal liberalismo. Dugin, infatti, afferma che l’unica soluzione alla deriva nazionalistica è di ritornare a un dialogo libero. Innanzitutto, quindi, serve porre un freno ed, anzi, eliminare la censura a danno degli intellettuali che si elevano a portavoce dei populismi, in quanto questa forma di censura ha tutte le carte in regola per poter essere definita come una violazione dei diritti umani. (21 giugno 2019, data di termine – con svariati riadattamenti eseguiti a ridosso della data di pubblicazione della seconda parte)