Il necrologio per Eduard Limonov

Eduard Limonov è morto. Aveva settantasette anni. È morto da giovane, da adolescente. Si è sempre rifiutato disperatamente di invecchiare, di crescere. Non è mai cresciuto. Mi verrebbe da chiamarlo “nonno”, per sottolineare la sua adolescenza, usando un epiteto assurdamente contrastante rispetto a come lui si percepiva. Limonov è morto, restando del tutto giovane. Credo che il suo unico amore fosse quello verso se stesso. Ma era grande questo amore, gigante… era l’amore di una vita integra, che nessuno avrebbe potuto portargli via.

Le sue opinioni politiche si aggiungevano a quel grande amore – l’amore verso se stesso –, che rendeva il mondo esterno e gli altri uomini disgustosi e meschini quanto lui stesso era bello, luminoso, indomito, libero e incomparabilmente migliore. Questa postura era del tutto esplicita – «Eccomi, sono Ed» –, provocatoria e anarchica, sfuggendo spesso agli osservatori esterni, confondendoli. Sarebbe di cattivo gusto prendere le sue strategie poetico-politiche con serietà. Il suo “fascismo” o “nazionalismo” erano solo una postura, un dandysmo iper-individualista volto a spaventare il pubblico. Prendere troppo sul serio Limonov significa mancare di senso estetico.

Apparteneva a un ambiente e a una cultura di cui non era rimasto praticamente nulla. Un ponte tra l’Età dell’Argento della cultura russa estinta e un’Età del Bronzo che non è mai iniziata. La misura dell’incomprensione di Limonov è la misura dell’incomprensione di tutto – dell’arte, così come della politica. La sua vita e la sua personalità erano del tutto autosufficienti. Una volta mi aveva detto che a Kharkov, da giovane, per un amore adolescenziale, si era tagliato le vene; non per disperazione, ma per un eccesso di vitalità – per mancanza di paura e una certa inudibile rimozione di se stesso.

Sua moglie, la cantante Natasha Medvedeva, non aveva la sua effervescenza e lo condizionava negativamente. Insieme sono stati tragici, solo, Limonov recuperava la sua reale e originale dimensione.

Limonov ha creato il partito dei giovani, che è stato ed è il fenomeno più eclatante della vita politica russa. Un partito folle e allegro, adolescente e indomito come lui stesso. Imitandolo, quei giovani hanno reso le loro carriere più adatte ad epigoni, mentre lui è rimasto da qualche parte ai margini della società, anche se tutti lo conoscevano. Quando ha fatto un passo verso i liberali, la “grande cultura” globalista lo ha immediatamente accolto. Ma a Limonov non interessava: lui voleva spaventare, scioccare, provocare, deliziare, stupire… Appena “perdonato” e “incensato” dai globalisti confusi per via della sua critica a Putin, ancora una volta, Limonov ha proclamato qualcosa di politically incorrect – ad esempio, la «Crimea è russa», dando sostegno alla Primavera russa.

È morto com’è vissuto. Senza piegarsi. È morto quando il suo tempo era giunto. Di una buona morte – con la coscienza chiara e lo spirito vivo.  E questo è così importante… morire bene. Sì, la morte! Era lo slogan del partito nazional-bolscevico. Limonov ha ribadito queste parole uno volta di più… questa volta in maniera decisiva.