INTRODUZIONE A NOOMACHÌA. LEZIONE 4 .IL LOGOS DI CIBELE

Quella che segue è la quarta di dieci lezioni tenute dal Professor Aleksandr Dugin a Belgrado (marzo 2018) nell’ambito della scuola di geopolitica serba e dedicate all’introduzione al progetto Noomachìa. Trascrizione e traduzione a cura di Donato Mancuso. Fonte: https://www.geopolitica.ru/en/studio/introduction-noomahia-lecture-4-log... Video: https://youtu.be/R9BXWgkgRjk

Al fine di comprendere come la cultura indoeuropea sia passata dallo stadio nomade allo stadio sedentario e cosa è accaduto nel corso di questa transizione, durante questo mutamento nella struttura stessa del momento della Noomachìa, dobbiamo considerare qual era l’orizzonte esistenziale che si trovava attorno al Turan in epoca preindoeuropea. Le tribù indoeuropee turaniche giunsero nell’Europa orientale, nell’Anatolia, nei Balcani, nel territorio di Alam in Persia, nello spazio indiano, ma tutti questi territori non erano vuoti. Vi era una qualche altra civiltà, esisteva un altro orizzonte esistenziale, con un proprio momento della Noomachìa diverso da quello caratterizzante le tribù nomadi delle steppe. Stiamo parlando delle civiltà preindoeuropee che avevano sede in Europa, nei Balcani, in Anatolia, nella Persia e nell’India.

1. Europa Antica

Seguendo la teoria di Marija Gimbutas a cui abbiamo accennato nella precedente lezione, esisteva in Europa, prima della venuta degli indoeuropei, la civiltà della «Grande Dea», una civiltà molto antica i cui primi poli furono situati nei Balcani e in Anatolia. Lepenski Vir e Vinča in Serbia, Çatalhöyük in Turchia e altri siti archeologici ci parlano di una civiltà della Grande Madre sorta circa 7-8 mila anni prima di Cristo; le prime ondate migratorie delle popolazioni turaniche, per contro, avvennero attorno al 3000 a.C. La Grande Madre aveva nomi differenti ma lo stesso Logos, e per indicare tale civiltà paleo-europea – i cui più antichi resti sono stati rivenuti nei siti archeologici situati in Serbia, Bulgaria, e in altri territori balcanici – Marija Gimbutas ha introdotto la dizione di «Europa Antica».

La civiltà dell’«Europa Antica» era una civiltà matriarcale e si caratterizzava per la predominanza totale delle figure femminili; tombe senza armi, antiche pratiche agricole stanziali, sono tutti elementi caratterizzanti questo tipo di società, la quale possedeva una struttura completamente differente rispetto a quella delle tribù indoeuropee turaniche. A tal proposito, consiglio la lettura de Il Matriarcato [1], un’opera classica di Bachofen, autore già nominato nella prima lezione; in questo fondamentale lavoro del XIX secolo, vengono esaminati gli aspetti matriarcali appartenenti alle tradizioni delle società ginecocratiche greche e anatoliche come i Lidi, i Lici, i Cari, i Frigi, gli Hatti, ecc. Vi sono diversi dibattiti su chi fossero questi paleo-europei così come su quali popoli moderni ne siano i discendenti – molto probabilmente si tratta delle genti preindoeuropee pelasgiche, degli Etruschi, degli Hatti, e dei popoli caucasici moderni quali i Georgiani, i Daghestani, i Ceneni, ecc. – tuttavia, sia che ci rifacciamo alle opere di Bachofen, sia che seguiamo la teoria di Marija Gimbutas o di altri autori, tutti concordano sul fatto che, prima delle ondate migratorie portatrici della cultura kurganica, esisteva una diversa civiltà con un differente Logos, e studiando questo Logos non solo dai simboli ma anche dai miti e dai racconti inglobati nelle tradizioni indoeuropee (ad esempio ittite, elleniche o latine), possiamo ricostruirne i tratti fondamentali.

Anzitutto, quella parlo-europea era una civiltà ctonica e mondana: non vi era l’idea del «Padre celeste» o della luce che discende, al contrario vi era l’idea del «parto» della Grande Madre rappresentante terra e acqua, la quale dà la vita a tutto ciò che esiste. Si tratta di una logica sostanzialmente opposta a quella apollinea: vi è una sorta di sostanza primordiale che dà alla luce ogni cosa. A sottolineare questa concezione, le figure più antiche della Madre hanno la parte inferiore del corpo descritta in modo realistico ma non c’è testa, non c’è volto, non ci sono mani: la parte superiore del corpo viene tralasciata proprio perché il centro della sacralità, il perno attorno al quale ruota tutto è il ventre gravido della Madre, che corrisponde all’origine e allo stesso tempo alla fine di tutto, alla culla e alla tomba di ogni cosa.

Tale civiltà si caratterizzava per lo sviluppo di alcune grandi città, con siti sacrali al centro ma prive di mura. Si tratta di insediamenti molto diversi da quelli indoeuropei, i quali erano al contrario tutti dotati di mura, a indicare la loro natura di costruzioni militari. Il tipico insediamento indoeuropeo non era sviluppato a partire da uno o più villaggi stanziali, ma costituiva una costruzione artificiale edificata al fine di conquistare il territorio nel quale andava a sorgere. Possiamo dunque individuale due tipologie di città: con le mura (indoeuropee, turaniche) e senza mura (pacifiche, sedentarie, agricole), le quali costituivano una pura manifestazione del Logos di Cibele.

Un’altra caratteristica fondamentale della civiltà dell’«Europa Antica» è la presenza di una cultura agricola sviluppata da donne. I primi coltivatori erano donne che lavoravano la terra quasi ne fossero le ostetriche o le doule; non è un caso che lo strumento principale per dissodare il terreno e prepararlo alla semina fosse la zappa, un utensile leggero e facile da maneggiare – uno strumento potremmo dire «femminile» – e non l’aratro. Dunque, vi erano appezzamenti piccoli lavorati da donne senza l’uso di animali (cavalli, buoi, ecc.).

Nella visione del mondo puramente matriarcale rappresentata nel mito della dea Cibele – la «frigia madre» – è centrale il concetto dell’androgino femmineo, Agdistis. Essendo un essere androgino, Agdistis non necessitava di accoppiarsi per il concepimento, dunque diede alla luce da sola l’eroe anatolico Attis, di cui si invaghì – abbiamo pertanto a che fare con la relazione incestuosa tra madre e figlio, una caratteristica fondamentale di questo ciclo matriarcale. Tuttavia, quando Attis crebbe, egli volle sposare una normale donna umana, e ciò generò una grande gelosia nella Grande Madre, che fece diventare pazzo Attis, il quale si evirò e morì. Ma a quel punto, Cibele si affranse così tanto per la perdita di Attis che lo fece risorgere prendendolo al suo servizio ed egli diventò un suo sacerdote. Da qui segue un altro tratto caratteristico di questa cultura, ossia quello dei sacerdoti eunuchi della dea Cibele, i cosiddetti «galli», e dei sacrifici sanguinosi ad essi connessi, poiché il sangue dei sacerdoti maschi rappresentava una sorta di nutrimento per la terra, e favoriva il raccolto. Ma questo mito ci dice anche qual era il destino generale dell’uomo nel mondo cibeliano.

In questa cultura le figure maschili sono totalmente assenti: nelle sue raffigurazioni, la Grande Madre veniva attorniata su entrambi i suoi lati da delle bestie, per lo più due, le quali gradualmente ottenevano caratteristiche umane fino a diventare prima metà bestia e metà uomo, e infine uomini a tutti gli effetti. L’uomo era dunque una sorta di derivato, lo sviluppo umano di una bestia, a sua volta partorita dalla Grande Madre, dacché la creazione ha origine dalla sostanza primordiale donatrice di vita. Ciò si traduce in un simbolismo che differisce totalmente da quello che abbiamo visto nello studio della cultura indoeuropea turanica. Qui la sola figura maschile presente è quella del serpente (o in alternativa dal pesce), qualcosa che vive all’interno della Grande Madre, in una dimensione sotterranea, pronto a sgusciare in superficie per poi scomparire nuovamente nelle profondità. La figura del serpente rappresentava una sorta di «maschile mancante» ed era una figura assolutamente positiva. La società era inoltre matrilineare, cioè l’appartenenza ad una famiglia e ad una linea di discendenza veniva definita dalla propria madre, mentre il padre era sconosciuto o comunque aveva un’importanza secondaria poiché a «dare la vita» era la madre e non il padre, la cui figura in alcuni casi limite poteva anche non esistere.

In sostanza, abbiamo a che fare una civiltà puramente cibeliana basata su una struttura completamente diversa da quella indoeuropea: una civiltà sedentaria e non nomade, matriarcale e non patriarcale, basata sul culto della Madre mondana e non del Padre celeste. Vi è solo la Madre che crea, nutre, distrugge e dà nuovamente la nascita: tutto procede da lei e a lei fa ritorno. Questo implica un’immagine completamente differente del cosmo, al cui centro vi è lo spazio chiuso interno alla terra e non lo spazio aperto del cielo blu con lo sguardo rivolto al Sole. L’elemento centrale non è il fuoco solare ma l’acqua terrestre, non è il giorno ma la notte, non è il maschile ma il femminile. Il matriarcato non corrisponde alla versione femminile della dominazione maschile (indoeuropea), ma è un tipo particolare di società basato sull’eufemismo: la morte è vita, l’oscurità è luce, la sofferenza è gioia, il passivo è attivo. La si potrebbe comparare al «regime notturno» in Gilbert Durand.

L’immagine del mondo è il ventre della donna. Il mondo stesso è dunque concepito differentemente: il suo centro non è situato sopra la terra ma al disotto, nel sottosuolo. La terra difatti non è caratterizzata da una superficie dura, brulla, volta a favorire l’ascensione, il «ritorno» all’origine celeste di ciò che vi discende, come nel caso del mondo platonico; in questa immagine del mondo le radici non sono nel cielo ma affondano nella terra, una terra che, al contrario di quella delle steppe, è adatta alla semina e alla piantumazione, una terra da cui crescono vegetali e alberi. Pertanto, si basa tutto fondamentalmente su una costruzione che procede da un livello sotterraneo verso la superficie. Analogamente, mentre i riti funebri degli indoeuropei erano caratterizzate dalla cremazione, il cui scopo era di favorire il «ritorno all’origine solare», al fuoco, alla luce, in questo caso i riti funebri si basano sulla sepoltura nelle tombe.

In definitiva, se la cultura indoeuropea turanica rappresenta il regno celeste del Padre, la civiltà paleo-europea dell’«Europa Antica» costituisce il regno mondano della Madre. Si tratta di due differenti prospettive concernenti la vita e la morte. Nel regno della Madre ad esempio non vi è un’anima immortale che proviene dal cielo, ma l’eterno ciclo di nascita e morte della stessa sostanza che si ricombina in forme e modi diversi.

2. Sedentarizzazione degli indoeuropei

L’orizzonte esistenziale dell’«Europa Antica» delineato dai poli civilizzazionali rappresentati dalle sue grandi città, dalle ceramiche e dai molti altri oggetti rinvenuti nei siti archeologici, dal culto per la Grande Madre, dai templi in suo onore, ecc., indica una civiltà matriarcale molto sviluppata, con una struttura stabile e costante. Allo stesso tempo, possiamo notare come molti livelli della mitologia della Grande Madre siano stati inglobati nella società patriarcale, nella mitologia greca a noi nota. L’idea della castrazione di Urano da parte di Crono, così come le figure dei titani, erano immagini matriarcali appartenenti ad una tradizione precedente. Tutti questi elementi si sono rivelati costanti nel corso del tempo e hanno continuato ad essere presenti nella mitologia e nei racconti di folklore fino ai giorni nostri; in altri termini, sono sopravvissuti a migliaia di anni di dominazione della cultura indoeuropea patriarcale. A tal proposito, consiglio la lettura dell’opera Il matriarcato slavo [2] dell’autore italiano Evel Gasparini, il quale, in questo lavoro in tre volumi, ha indagato sui molti aspetti matriarcali nelle tradizioni slave (serba, bulgara, russa, ceca, ecc.).

Dobbiamo dunque riconoscere la presenza nella società europea di «due livelli». Quando le tribù indoeuropee di tipo patriarcale provenienti dal Turan giunsero sulle rive del Dnepr, trovarono al di là del fiume la cultura Cucuteni-Trypillia di tipo matriarcale. Il loro incontro produsse una mescolanza tra due orizzonti esistenziali: il livello turanico o indoeuropeo, la cui struttura verticale è stata descritta nelle sue caratteristiche fondamentali nella precedente lezione, si andò a combinare con il livello paleo-europeo cibeliano. Questo incontro tra il Logos di Apollo, rappresentato dal tipo di società indoeuropeo trifunzionale e patriarcale proveniente dal Turan, e il Logos di Cibele rappresentato dalle popolazioni paleo-europee che vivevano al di là del Dnepr – fiume che per migliaia di anni è stato, come afferma Marija Gimbutas, un vero e proprio confine tra due civiltà, la civiltà turanica ad est e il regno della Grande Madre ad ovest – produsse un mutamento nella struttura del momento della Noomachìa coincidente con la sedentarizzazione dei popoli indoeuropei.

Anche in Anatolia e nell’Asia Minore, così come ad ovest, in Italia, in Spagna e nelle isole britanniche, troviamo lo stesso tipo di civiltà paleo-europea matriarcale. I popoli preindoeuropei della Persia e dell’India, invece, erano di tipo diverso. Qui troviamo i Drāviḍa, genti paleo-indiane che tuttavia, sebbene differiscano dai paleo-europei per fenotipo, erano anch’essi di tipo matriarcale; in altri termini, dal punto di vista noologico, le popolazioni paleo-indiane condividevano con i paleo-europei lo stesso Logos di Cibele, un tipo di Logos che possiamo scorgere sotto il livello della civiltà indoeuropea indiana, dove vi è una tradizione esplicita, palese, che è quella vedica, e poi una celata che è pre-vedica, matriarcale e ctonica.

Ogni tipo di società indoeuropea sedentaria a noi nota è il risultato della commistione tra due tipi noologici: il Logos di Apollo patriarcale, collegato al livello indoeuropeo nomade, e l’orizzonte esistenziale preindoeuropeo, molto più profondo e nascosto, di tipo matriarcale, appartenente alla civiltà paleo-europea (o paleo-indiana) che è andata a costituire una sorta di sostrato per tali società. Questo è uno dei risultati più importanti se non il più rilevante dell’analisi noologica sulla cultura indoeuropea.

Ogni società indoeuropea si basa dunque sulla sovrapposizione di due orizzonti esistenziali. Ciascuna cultura indoeuropea esistente – sia essa celtica, francese, italiana, spagnola, germanica, slava, greca, iraniana o indiana – possiede due livelli esistenziali e si basa sulla Noomachìa o conflitto tra il Logos di Apollo, che è manifesto, e il Logos di Cibele, che invece è nascosto, segreto. Friedrich Jünger ha affermato non a caso che l’ordine degli dèi olimpici è costruito sulle spalle dei titani sconfitti. In altri termini, alla base della società indoeuropea eroica vive un orizzonte esistenziale cibeliano che possiamo ugualmente individuare nella tradizione europea (racconti popolari, miti, religioni, scritti, ecc.).

La nostra tradizione è sostanzialmente duale: formalmente siamo indoeuropei – la parte «diurna» della nostra società si caratterizza per una struttura verticale e patriarcale – ma segretamente, nella parte «notturna» vive l’orizzonte esistenziale della Grande Madre, del matriarcato, che si manifesta nella società pacifista e democratica. La nostra identità di popoli indoeuropei dovrebbe essere considerata come essenzialmente duale. Senza il riconoscimento di questo secondo livello preindoeuropeo, non potremmo spiegare nulla della sequenza istoriale della nostra civiltà, dacché la storia europea, così come quella indiana e iranica, si basa sulla continua lotta tra questi due Logoi.

È precisamente questo il nostro momento della Noomachìa: il Logos di Apollo è sopraggiunto dal Turan ed ha sopraffatto il Logos di Cibele; ciò costituisce l’evento centrale del nostro istoriale. Quando le tribù turaniche nomadi conquistarono le società sedentarie, crearono qualcosa di nuovo, un nuovo tipo di società formalmente indoeuropea, sotto cui però si celava qualcosa di diverso. Questa è la differenza tra Iran e Turan in Firdūsī, di cui abbiamo parlato nella precedente lezione: l’Iran possedeva questo orizzonte matriarcale, mentre nel Turan era assente. Dunque il conflitto tra Turan e Iran in Firdūsī o nell’Avesta, in senso noologico è qualcosa d’altro rispetto a ciò che appare. La natura sedentaria delle società indoeuropee indica che è avvenuto inevitabilmente un incontro con questo secondo orizzonte esistenziale preindoeuropeo, il quale è stato conquistato, messo sotto controllo, domesticato e assimilato.

La sedentarizzazione degli indoeuropei ha coinciso con, potremmo dire, la «domesticazione di Cibele», la conquista del potere femminile, che è stato sottoposto al potere maschile. Ma la natura patriarcale delle società indoeuropee sedentarie è il risultato di un conflitto molto violento che è tutt’ora in corso, poiché il Logos matriarcale di Cibele non appartiene unicamente al passato, continua a vivere nella nostra cultura anche oggi. Viviamo in una società basata su due livelli, dove la titanomachìa, la guerra tra dèi e titani non ha mai avuto fine. Il risultato più rilevante di questa nostra analisi noologica è dunque che abbia,o a che fare con una società e una cultura europea fondamentalmente duale, che a differenza della società turanica delle steppe è basata su due livelli.

3. Assimilazione di Cibele

La sedentarizzazione ha tuttavia influito in modo diverso sulle tre caste costituenti la struttura trifunzionale verticale delle tribù turaniche. I sacerdoti e i guerrieri di queste tribù diventarono, per così dire, la «classe dirigente» delle società indoeuropee sedentarie, ma fino ad oggi le nostre forze armate e la nostra classe sacerdotale sono fondamentalmente rimasti «turanici». La sedentarizzazione non ne ha alterato la morale. Essi hanno continuato a creare fortezze, a rinnovare il culto del Dio solare, del Padre, e a difendere la struttura gerarchica che caratterizza i nostri sistemi politici e che è la continuazione della stessa struttura verticale indoeuropea. Metafisicamente, essi sono stati toccati in modo molto limitato dalla sedentarizzazione. Hanno anzi imposto la propria ideologia indoeuropea (Dumézil), oltre che il proprio linguaggio, ai popoli conquistati, difatti noi oggi parliamo tutti lingue indoeuropee. Per millenni abbiamo vissuto sotto l’ideologia indoeuropea e con una classe dominante costituita dai continuatori di quella civiltà a cui appartenevano i conquistatori turanici. Detto altrimenti, dopo l’assoggettamento delle genti paleo-europee e la conseguente sedentarizzazione delle tribù turaniche, i popoli europei hanno vissuto in una società formalmente apollinea in tutto: nella cultura, nell’educazione, nella filosofia, nell’etica, nell’estetica, e così via.

Un discorso diverso va fatto per la «terza funzione», ossia per la casta dei produttori che nella società trifunzionale indoeuropea era adibita agli aspetti economici, concernenti cioè la produzione materiale. Nella società turanica, in cui si manifesta il Logos apollineo nella sua forma più pura, la terza funzione duméziliana era assolta dai pastori nomadi. Si trattava di uomini che avevano a che fare con grandi animali (buoi, bovini, cavalli), che dunque necessitavano dei vasti spazi turanici per sfamare il bestiame e dovevano esprimere una forza fisica non indifferente per domesticarlo e controllarlo, e che pertanto dovevano essere piuttosto nerboruti. Tuttavia, quando le tribù turaniche conquistarono le società sedentarie e si sedentarizzarono a loro volta, la terza casta a differenza delle prime due subì una notevole influenza da parte della società sedentaria, interiorizzandone molti aspetti.

La struttura socioeconomica paleo-europea venne assimilata nella terza funzione della società turanica. Ciò interessò anzitutto l’ambito produttivo, dove vediamo un chiaro mutamento sia nei metodi di lavoro che nella composizione della produzione stessa. Le coltivazioni di cereali, erbe e verdure divennero predominanti, rimpiazzando la pastorizia nomade. Di pari passo, fece ingresso la figura maschile nell’agricoltura: la coltivatrice donna caratterizzante la società matriarcale preindoeuropea fu sostituita dal contadino maschio indoeuropeo, il quale al posto della zappa utilizzava l’aratro. La terra dunque era ora lavorata dagli animali – buoi o cavalli domesticati – con il duro e pesante aratro, impossibile da manovrare per una donna. La relazione dolce con la terra lasciava spazio ad una relazione violenta.

La tradizione della Grande Madre, di origine balcanica e anatolica, ha così continuato a vivere nella cultura agricola delle società indoeuropee sedentarizzate. Ciò spiega perché nei nostri racconti popolari, nei nostri miti, nelle nostre tradizioni, vi sono così tanti elementi e figure matriarcali, più o meno nascosti. Al livello della casta dei lavoratori, nella terza funzione delle società indoeuropee, sono stati integrati nel tempo molti racconti riguardanti serpenti, regine, dee, spiriti, demoni e altre creature mitologiche femminili di vario tipo – a titolo d’esempio, si pensi alla rusalka slava. Questo è accaduto perché, quando le tribù indoeuropee si sono sedentarizzate, esse hanno assimilato questo orizzonte esistenziale nella loro struttura.

È come fosse stato stipulato un «patto storico» tra vincitori e vinti. Ufficialmente, la civiltà della Grande Madre ha perso questa battaglia titanica contro gli dèi olimpici, e su questa vittoria si basa tutto il nostro sistema etico e la sequenza istoriale europea, che è la storia di come i turanici hanno conquistato l’«Europa Antica». Tuttavia, l’orizzonte esistenziale conquistato ha vissuto e vive ancora all’interno della nostra società, nella terza funzione. Potremmo addirittura scrivere una storia della casta coltivatrice europea del tutto parallela alla «storia ufficiale», cioè alla storia delle opere e delle imprese delle prime due caste (re, nobili, aristocrazia, ecc.), come se avessimo a che fare con una particolare civiltà incorporata nella «civiltà ufficiale».

Possiamo definire l’universo agricolo e contadino come il punto d’incontro di due orizzonti esistenziali, entrambi appartenenti alla nostra civiltà europea: l’orizzonte del Logos di Apollo, rappresentato dall’ideologia ufficiale trifunzionale, e l’orizzonte del Logos di Cibele, una ideologia parallela, che connota la tradizione di massa ed è presente nella parte oscura, nel subconscio della società agricola e sedentaria. La nostra società si basa su questo momento della Noomachìa. Ma la Noomachìa è un conflitto continuo; in altri termini, non possiamo accordare una volta per tutte la vittoria ad un Logos. Se il Logos di Apollo si indebolisce, significa che un altro Logos sta diventando più forte. Così, se il patriarcato inizia a dissolversi – è questo il caso della modernità occidentale e in particolare modo della postmodernità –, un’altra tendenza ad esso contraria inizierà ad apparire, a diventare sempre più esplicita.

Non dovremmo dunque dare per scontato la vittoria degli dèi sui titani. Esiste peraltro più di un esempio nel passato che ci mostra come in una società indoeuropea i titani possano prevalere. È il caso dei Frigi, popolo indoeuropeo anatolico che ha continuato e rinnovato il culto della Grande Madre preindoeuropea. Lo stesso può dirsi per i Lidi, altro popolo indoeuropeo anatolico matriarcale che praticava il culto della Grande Madre, o per i Lici, continuatori della tradizione indoeuropea ittita, i quali si caratterizzavano per una società matrilineare.

Anche in Grecia abbiamo casi in cui la Grande Madre vince. Bachofen riporta molti esempi di questo genere. Le tribù elleniche degli Ioni e degli Eoli sperimentarono una parziale sopraffazione da parte della tradizione pre-greca. I Dori, l’ultima delle quattro tribù elleniche che invasero la Grecia, erano integralmente androcratici e turanici, ma le precedenti tribù elleniche furono grossomodo assimilate nella civiltà minoica e micenea, dove vediamo mura attorno alla città, caratteristica questa turanica, ma con templi della Grande Madre al centro, come nelle antiche città micenee. Si trattava dunque di una commistione tra i due orizzonti in cui la Grande Madre aveva ottenuto una sorta di «vendetta», che durò sostanzialmente fino alla discesa dei Dori, tribù portatrice di una serie di elementi decisivi caratterizzanti il patriarcato e incline a nessun compromesso con il Logos di Cibele. Ma la loro invasione dal nord dei Balcani ebbe luogo intorno al 1200 a.C., molto dopo le ondate migratorie delle prime tribù elleniche.

Tutti questi esempi ci dicono che nel contesto indoeuropeo il potere della Grande Madre può essere così soverchiante da trasformare e reinterpretare le figure dell’ideologia indoeuropea in modo completamente diverso. La continua Noomachìa caratterizzante la nostra civiltà costituisce infatti un conflitto semantico, che dunque non si manifesta semplicemente nella sostituzione di una divinità maschile con una femminile o di una divinità celeste con una terrena. La questione è molto più complessa. Si tratta di una «guerra dell’interpretazione» relativa alle stesse figure e agli stessi simboli. Per esempio, accanto al Zeus grande e potente dio degli dèi figlio del patriarcato, troviamo la leggenda dello Zeus cretese che appartiene ad una tradizione completamente matriarcale. Si tratta dello stesso dio, ma reinterpretato in modo diverso, in senso matriarcale. Un altro esempio, di senso opposto, lo fornisce la dea Atena, divinità dai lineamenti femminili ma di tipo maschile essendo interpretata in senso turanico: una dea vergine, coraggiosa e saggia, senza legami con la maternità e con il potere della Terra, e con nessuna relazione ctonica con il serpente. Così, un elemento dell’orizzonte di Cibele può essere reinterpretarlo nel segno del Logos di Apollo, ma può accadere anche l’opposto, come nel caso dello Zeus cretese. Questi esempi sono tratti dalla mitologia, ma questo discorso può essere esteso ad ogni altro ambito. Vi è una guerra di interpretazione che è connaturata a tutte le società europee sedentarie, un processo conflittuale continuo dovuto alla presenza all’interno della nostra cultura del Logos di Cibele, dal quale invece erano libere le tribù turaniche che vivevano nello spazio nomadico eurasiatico.

Con la sedentarizzazione, fa il suo ingresso anche una nuova concezione della donna. Accanto alla donna turanica presente nel contesto dell’aniliginia – la donna come amica e guerriera, sostanzialmente equivalente all’uomo –, va ad affiancarsi la figura di una donna completamente diversa: una donna terrestre, non mascolina ma femminea, che rievoca la figura della culla, considerata come una sorta di possessione, di cui appropriarsi, da conquistare, sottomettere e controllare; in altri termini, una forma di proprietà riconosciuta eticamente e giuridicamente. Il passaggio dallo stile di vita nomade a quello sedentario, segna pertanto la biforcazione nell’immagine della donna. Una divisione che si riflette in molte istituzioni della società, compreso l’ambito delle divinità: nella società indoeuropea sedentaria le divinità possono infatti conservare caratteristiche turaniche – si pensi ad Atena, Diana e Artemide – o assumere tratti cibeliani, come nel caso di Demetra, Rea e soprattutto Gaia, il cui nome designa un tipo di donna matriarcale.

4. Conclusione

L’analisi noologica della sedentarizzazione degli indoeuropei, della quale in questa lezione abbiamo toccando i punti salienti, ci fornisce gli elementi per comprendere la struttura esistenziale di tutte le società indoeuropee. Ora sappiamo che vi sono due orizzonti esistenziali sovrapposti l’uno all’altro, ed è solo partendo da questo risultato che è possibile addentrarsi nello studio approfondito di ogni specifica società indoeuropea – dell’Europa occidentale, est-europea, iraniana o indiana. Ho dedicato a ciascuna di queste società – al Logos francese, germanico, latino, greco, inglese, iraniano, indiano – diversi volumi del progetto Noomachìa, applicando il concetto dei «due orizzonti» per poter testare come opera questa ermeneutica, questa interpretazione nei casi specifici rappresentati da ciascuna di queste culture, e come questa sovrapposizione di due livelli influisce sui contenuti e sulla semantica di ciascuno di questi popoli. Posso affermare con assoluta certezza che ovunque possiamo individuare entrambi gli orizzonti esistenziali, le loro interazioni e gli aspetti in cui prevale un orizzonte piuttosto che l’altro nei più svariati contesti – nella mitologia, nella religione, nella scienza, nella stessa visione del mondo – dacché il Logos coinvolge e influisce su ogni cosa.

Al termine di questa lezione, vorrei accennare brevemente a ciò che costituirà l’oggetto della nostra trattazione nella prossima lezione. Possiamo presumere, se ci ricordiamo di ciò che abbiamo detto nella prima lezione, che nella commistione dei due Logoi apollineo e cibeliano si manifesti il Logos dionisiaco. In effetti, il momento in cui Apollo e Cibele si incontrano ed entrano in conflitto, costituisce il momento della Noomachìa in cui appare Dioniso, il quale rappresenta precisamente l’intersezione di due orizzonti, il Logos verticale di Apollo nella sua versione pura con tutti i suoi contenuti turanici, e il Logos ctonico di Cibele. La prossima lezione sarà pertanto dedicata al Logos di Dioniso e alle culture basate su di esso.

[1] Johann Jakob Bachofen, Das Mutterrecht, Verlag Krais und Hoffmann, 1861. Trad. italiana: Il Matriarcato, Einaudi, 1988.
[2] Evel Gasparini, Il matriarcato slavo. Antropologia culturale dei Protoslavi, Vol. 1, 2 e 3, Firenze University Press, 2010. http://www.larici.it/culturadellest/storia/allegati/gasparini/index.html