L’Eroe: la metafisica dell’infelicità

Se si toglie la dimensione del Cielo, si ottiene l’uomo; se si toglie la dimensione terrestre, si ottiene Dio; è nell’eroe che c’è un’intersezione tra Terra e Cielo.
All’inizio c’è solo l’uomo (qualche essere terreno), poi il greco, poi l’eroe, poi Dio. Quindi il greco è la via dell’eroe (la civiltà greca è una civiltà eroica), e l’eroe è la via dell’uomo verso Dio. Così è con Omero, così fino ai neoplatonici, e poi con qualche modifica è passato al cristianesimo.
L’eroe è la via di Dio verso l’uomo e dell’uomo verso Dio; nell’eroe Dio può conoscere cose che non gli sono proprie, come la sofferenza.
Da qui l’idea che le anime degli eroi siano le lacrime degli dèi. Perché Dio è impassibile, calmo, eterno, nulla lo smuove, mentre l’uomo è appassionato, malato, sofferente, tormentato, sperimenta la povertà, l’umiliazione, la debolezza, il dubbio.
Dio non conoscerà mai la passione, il dolore, la perdita, lo smarrimento, non conoscerà mai l’essenza dell’uomo a meno che non abbia un proprio figlio o figlia eroico che permetta a Dio di sperimentare l’incubo, l’orrore e la profondità della povertà, della privazione insita nell’uomo. A Dio non interessano le persone prospere e di successo: le loro conquiste, rispetto a Lui, sono insignificanti. Ma l’uomo, che soffre, che è tormentato, che lotta con il destino, è un enigma per Dio.
E Dio potrebbe voler superare se stesso, la propria impassibilità, la propria beatitudine, e assaggiare la povertà – l’assenza di beatitudine, sperimentare la sofferenza (πάθος in greco), la miseria. È l’eroe che permette a Dio di sentire il dolore e all’uomo, al contrario, di scoprire l’esperienza della beatitudine, della grandezza, dell’immortalità e della gloria.
L’eroismo è dunque un’istanza ontologica e contemporaneamente antropologica, una verticale lungo la quale si svolge il dialogo tra divino e umano (o celeste e terreno).
Dove c’è un eroe, c’è sempre una tragedia: l’eroe è sempre sofferenza, dolore, rottura e tragedia. Non esistono eroi felici, tutti gli eroi sono necessariamente infelici. L’eroe è infelice.
Perché? Perché essere contemporaneamente eterni e temporanei, senza passioni e sofferenti, celesti e terreni è l’esperienza più insopportabile per qualsiasi creatura, una condizione che non augurereste mai al vostro nemico.
Nel cristianesimo, gli eroi sono stati sostituiti da asceti, martiri, santi. Allo stesso modo, non esistono monaci o santi felici. Sono tutti profondamente infelici in termini umani. Ma in un altro racconto celeste, essi sono benedetti. Come sono benedetti coloro che piangono, coloro che sono esiliati, coloro che sopportano la calunnia, coloro che hanno fame e sete nel Discorso della montagna. Beati i miserabili.
Ciò che fa di un uomo un eroe è il pensiero che si sforza di raggiungere il Cielo, ma crolla a Terra. Ciò che rende un uomo un eroe è la sofferenza, l’infelicità che lo lacera, lo tortura, lo indurisce, e così sempre. Può accadere in guerra o in una morte agonizzante, ma può anche accadere senza guerra o morte.
L’eroe cerca la propria guerra e, se non la trova, va nella sua cella, nell’eremo, e lì combatte contro il nemico reale. Perché la vera battaglia è una battaglia spirituale. È quanto scrive Arthur Rimbaud in: la battaglia dello spirito è brutale come la battaglia di eserciti contrapposti. (Le combat spirituel est aussi brutal que la bataille d’hommes). Qui sapeva di cosa stava parlando.
Un eroe, come dice il neoplatonico Proclo, è pari a cento o addirittura migliaia di anime comuni. Egli è più grande dell’anima umana perché fa vivere ogni anima in modo retto. Questa dimensione eroica delle origini del teatro e, di fatto, dell’etica della nostra fede è la cosa più importante che non dobbiamo perdere, che dobbiamo custodire negli altri e alimentare in noi stessi.
Il nostro compito è diventare profondamente, fondamentalmente e irreversibilmente infelici, per quanto possa sembrare spaventoso, solo così possiamo trovare la salvezza.
Traduzione a cura di Lorenzo Maria Pacini